Come diventare avvocato, la lunga e tortuosa strada che in pochi ti hanno annunciato.
Moltissimi sono gli iscritti, ogni anno, alla facoltà di giurisprudenza, una facoltà che prevede 5 anni di studi caratterizzati da esami come quelli culturali-filosofici, tra cui filosofia del diritto, storia del diritto moderno, istituzioni di diritto romano, per esempio, a quelli più impegnativi, come le due procedure, civile e penale (basti pensare che un solo manuale di queste ultime materia supera tranquillamente le mille pagine).
Dopo anni di sacrifici e costi (tutti i manuali non hanno prezzi sotto la soglia dei 25/30€) si esce dall’università, chi riesce in 4/5 anni è stato bravissimo, la maggioranza ce ne mette più di 5.
Finiti gli studi si può scegliere o la “scuola forense” (una sorta di corso biennale successivo all’università che sostituisce la pratica, come se ci fosse bisogno di altri anni di corso dopo i 5 appena trascorsi), o la pratica vera e propria.
Dopo i festeggiamenti post-laurea, infatti, ogni giovane futuro ambizioso avvocato deve cominciare a cercare uno studio che lo possa “assumere” come praticante. Assumere è volutamente messo tra virgolette perché la pratica forense si trova a metà strada tra la formazione pratica e l’esercizio della professione. I domini, così sono chiamati gli avvocati-maestri dei giovani praticanti, dietro il concetto “io gli sto insegnando” quasi mai pagano il praticante, molto spesso ritenendolo quasi un ostacolo per la propria professione. Da una parte il codice di deontologia invita i praticanti ad una pratica effettiva, piena e partecipata, dall’altra dispensano i domini dall’obbligo dal corrispondere un qualche incentivo economico al giovane (che nel frattempo è meno giovane, in quanto, se si è riuscito a laureare nei termini, ha già 24/25 anni).
Il codice deontologico forense, all’art. 40, al comma 1 e 2, prescrive che: “L’avvocato deve assicurare al praticante l’effettività e la proficuità della pratica forense, al fine di consentirgli un’adeguata formazione. L’avvocato deve fornire al praticante un idoneo ambiente di lavoro e, fermo l’obbligo del rimborso delle spese, riconoscergli, dopo il primo semestre di pratica, un compenso adeguato, tenuto conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio.”
Analizziamo specificatamente i due commi. Il primo prevede sostanzialmente l’impegno in capo al dominus di seguire il praticante, il problema è che il motivo per cui dovrebbe sobbarcarsi tale “rogna” non è specificato. Finita l’università il laureato si trova dinnanzi a un mare di porte chiuse, di avvocati, molto spesso i primi a risentire della crisi, non hanno infatti alcun interesse a insegnare il loro lavoro a soggetti che tra qualche anno potranno diventare i loro concorrenti. E la cosa interessante è che trovare uno studio disposto a farti fare la pratica (quasi fosse un favore, a prescindere dalle intenzioni serie e laboriose del praticante) è il primo, ineluttabile passo per poter diventare avvocato, l’unica via se si vuole cominciare a “masticare” il mestiere (sempre se si ha la fortuna di trovare uno studio che non abbia solo bisogno di fotocopie e commissioni, quali, per esempio il portare il caffè in studio).
Il secondo comma, invece, impone un rimborso spese oltre ad un compenso adeguato al contributo “offerto”, è il caso di usare proprio questo termine, allo Studio. E qui la gabola: chi decide qual’è il contributo adeguato? Il dominus, lo stesso che ti deve pagare!
Realisticamente la pratica nella stra grande maggioranza dei casi è sempre gratuita. Nulla vieta, però, al praticante di trovarsi un lavoro alternativo (bar, ristoranti, magazzini…) in attesa che i guadagni tanto agognati comincino ad affluire.
Alla fine è anche vero che i neolaureati, poco sanno della procedura reale, pratica, del processo, fino a quel momento conosciuto praticamente solo sui libri, ignorando tutto ciò che è il “non detto”, che in un paese quale l’Italia è importante quanto il “detto esplicitamente”. E qui un altro problema, un’università troppo teorica e nozionistica, ma tornando al nostro problema principale, ovvero l’istituto della pratica forense oggi, una possibile soluzione temporanea e parziale è quella della figura del patrocinatore.
Tale figura è stata istituita dal Regio Decreto 1578/1933, art. 8 comma 2 : “I praticanti avvocati, dopo un anno dall’iscrizione del registro dei praticanti, sono ammessi, per un periodo non superiore a 6 anni, ad esercitare il patrocinio davanti ai Tribunali del distretto nel quale è compreso l’ordine circondariale che ha la tenuta del registro suddetto. Davanti ai medesimi Tribunali, in sede penale, essi possono essere nominati difensori d’ufficio, esercitare le funzioni di pubblico ministero e proporre dichiarazioni di impugnazione sia come difensori, sia come rappresentanti del pubblico ministero”. Questa figura è stata poi modificata nel 1999, quando la legge ha introdotto delle limitazioni tassative all’esercizio della professione legale dei patrocinatori, e, di fatto, cancellata della riforma della Legge Professionale del 2012. L’art. 41 comma 12, infatti, dispone che, “Nel periodo di svolgimento del tirocinio il praticante avvocato, decorsi sei mesi dall’iscrizione nel registro dei praticanti, purché in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza, può esercitare attività professionale in sostituzione dell’avvocato presso il quale svolge la pratica e, comunque, sotto il controllo e la responsabilità dello stesso …” e per “responsabilità dello stesso” si intende, implicitamente, “pagamento allo stesso” ( in quanto, comunque l’avvocato dovrebbe svolge un ruolo di controllo, avendone la responsabilità).
L’obbiezione del lettore, senz’altro condivisibile, a questo punto potrebbe essere la seguente: la formazione pratica è necessaria per un ruolo delicato come quello dell’avvocato, da cui dipendono i diritti, e anche le libertà, delle persone, che facciano questa pratica di un anno e mezzo dopo i 5 di laurea, i guadagni arriveranno!
E qui si tocca l’altro punto della nostra trattazione: l’esame da avvocato.
Terminati i 18 mesi di pratica, infatti, se si superano i semestrali controlli di effettività della stessa, si ottiene il certificato di compiuta pratica che permette l’accesso all’esame di Stato. E questo è il vero inferno. L’esame si compone di due parti, uno scritto, a sua volta diviso su tre giorni (un parere legale su una questione civile, uno su una questione penale ed un atto a scelta di diritto amministrativo, civile o penale) che solitamente si tiene verso la fine dell’anno. Il superamento di queste prove scritte porta alla fase orale e conclusiva di questo tortuoso procedimento.
I problemi sono, però molteplici. I tempi di correzione sono infiniti. Gli scritti si tengono a dicembre e le correzioni sopraggiungono solo a fine giugno, inizio luglio, gli orali cominciano tra settembre e ottobre e, in caso di bocciatura, a dicembre bisogna ricominciare da capo, dagli scritti!
Gli scritti sono svolti sotto il controllo della polizia penitenziaria e la direzione della Corte di appello ove il praticante ha esercitato. In passato l’esame poteva essere sostenuto ovunque, e i “viaggi sospetti” verso le Corti di appello del Sud, che numeri alla mano erano molto più permissive ed accondiscendenti rispetto a quelle del Nord, diventavano delle vere e proprie migrazioni. Così il legislatore, e segnatamente il Ministro della Giustizia Castelli, ha imposto lo svolgimento dell’esame nella Corte di appello ove si è svolta la pratica, con i compiti assegnati, per le correzioni, a sorteggio tra tutte le Corti di appello italiane. Il problema è che non si è intervenuti per omogenizzare i giudizi, e ancora oggi chi ha la fortuna di finire sotto certe Corti si vede promosso nel 60-70% dei casi, chi invece è meno fortunato solo nel 20-25%.
Inoltre i compiti vengono ancora redatti a mano dai candidati, sulle vecchie coppiette cartacee, poi vengono imballati, con tutte le precauzioni per garantirne una correzione anonima, e spediti alle Corti di destinazione. Tutte queste lungaggini portano i tempi di correzione fino agli attuali 6-7 mesi, praticamente a ridosso della nuova prova. I compiti corretti, inoltre, come è sempre evidente dall’accesso agli atti, sono completamente intonsi, fatto salvo il timbro, l’orario di correzione e il voto. Dubbi sull’effettiva lettura dello scritto vengono inevitabilmente a tutti i candidati.
In questo mare di singoli esami annuali è facile perdere anni, ritrovarsi sempre al punto di partenza (spesso sempre senza retribuzione) non capendo il perché e il per come.
Infine, sul concetto di “guadagno in futuro” e “avvocati ricchi”, purtroppo sembra essere oramai solo un luogo comune. Gli ultimi dati vanno in tutt’altra direzione. C’è da premettere che gli avvocati sono liberi professionisti, e che, quindi, non hanno uno stipendio fisso. L’avvocato di Berlusconi guadagnerà tantissimo, il giovane avvocato di periferia, pochissimo.
Detto ciò la media derivante dalle dichiarazioni dei legali in Italia si aggira sui 37.500 € lordi annui ( guadagni dimezzati dal 1996, dati tratti da legaldesck.it riferiti al 2018). Sotto i 30 anni, la media crolla (meno di 10.000€ annui) e fino ai quaranta stenta a decollare (la media si alza a 17.000 € circa). I motivi sono molteplici: la grande concorrenza, la crisi economica, la sfiducia nei tempi della giustizia pubblica…
Detto questo al cortese lettore, si chiede di avere rispetto per il legale con il quale vi rapportate, perché questi ha, alle spalle, molto studio, molta pazienze e ha dovuto sostenere molti sacrifici, al paro di qualsiasi altro lavoratore.