I dipendenti pubblici sono responsabili del loro agire e ne rispondono da un quadruplice punto di vista. Sussiste infatti nei loro confronti una responsabilità di tipo civile, che si configura nel caso in cui la condotta tenuta in ambito lavorativo abbia recato danno a terzi (responsabilità contrattuale o extracontrattuale), una responsabilità di tipo penale, se durante la loro attività professionale hanno compiuto una condotta che configuri un reato, amministrativo, nel caso in cui abbiano recato danno all’erario statale e una responsabilità disciplinare, nel caso abbiano contravvenuto ai doveri inseriti nel contratto da loro sottoscritto al momento dell’assunzione presso l’Autorità pubblica.
Ognuna di queste responsabilità è indipendente dalle altre, così come sono tutte diverse le autorità che sono chiamate ad accertare la verità dei fatti ed a prendere i relativi eventuali provvedimenti. Il Tribunale ordinario è giuridicamente competente ad accertare la responsabilità civile di un soggetto, il tribunale penale o la corte d’Assise (a seconda della gravità del reato di cui si sospetta il compimento) sono invece responsabili dell’accertamento della responsabilità penale e sono autorizzate alla successiva condanna dello stesso. La Corte dei Conti si occupa della responsabilità amministrativa e un ufficio interno alla PA, all’uopo riservato, si occupa delle sanzioni disciplinari.
Cosa succede, tuttavia, se un pubblico dipendente, con un singolo fatto, si rende responsabile di un’infrazione prevista in più responsabilità?
Il caso più comune è la coesistenza della responsabilità penale e di quella disciplinare. Si pensi alla sottrazione di un oggetto di cui abbia disponibilità il dipendente pubblico per ragioni del suo ufficio, per farne un uso proprio, che nel diritto penale configura il reato di peculato, previsto ai sensi dell’art. 314 c.p.. Tale condotta, tuttavia, è anche proibita da qualsiasi contratto di assunzione sotto vario titolo, configurando dunque anche una responsabilità disciplinare. Nella pratica gli esiti dei due procedimenti sono paralleli: nel procedimento penale la più grave conseguenza può essere la comminazione di una reclusione, nel procedimento disciplinare l’irrogazione di un licenziamento senza preavviso.
I procedimenti sono paralleli e indipendenti l’uno dall’altro, tuttavia l’ufficio procedimenti disciplinari può discrezionalmente scegliere di sospendere il proprio accertamento dei fatti per attendere che questi siano chiariti durante in dibattimento penale (che gode di una più amplia dotazione di mezzi di prova). La Cassazione ha stabilito recentemente che è anche discrezione dell’Amministrazione quando riavviare il proprio procedimento, non essendo legata ad attendere la conclusione di quello penale. In particolare la Suprema Corta, con la sentenza 12662/2019 ha stabilito che quando il datore di lavoro ritiene che dalla fase istruttoria del procedimento penale siano emersi tutti gli estremi oggetto di valutazione disciplinare, questo può riavviare e concludere il relativo procedimento, senza attendere la definizione di quello penale.