Se nel lavoratore, si ingenera un malessere psicologico causato, a suo dire, dalle condotte assimilabili al mobbing tenuto dal datore di lavoro, quest’ultimo non può limitarsi al licenziamento, ritenendo impossibili per lui intervenire nelle condizioni di malessere del lavoratore subordinato.
Il mobbing è una condizione di stress e malessere lavorativo, causato da condotte percepite come vessatorie di colleghi o datori di lavoro. In quest’ultimo caso il mobbing viene definito bossing, e si caratterizza, nello specifico, in ripetute condotte aggressive psicologicamente e/o fisicamente, volte a far valere la propria posizione di potere su un sottoposto.
Nel caso che è stato portato all’attenzione della corte di Cassazione, l’attore, dipendente presso l’Agenzia delle Entrate in qualità di agente tributario, aveva impugnato il licenziamento subito, in quanto lo riteneva conseguenza estrema di bossing. Il datore di lavoro, convenuto in giudizio dinnanzi al giudice territoriale, pur riconoscendo il malessere psicologico del dipendente, che ne aveva causato l’inabilità lavorativa idonea al licenziamento, si difendeva ritenendo impossibile per lui uno specifico intervento.
Il giudice di prime istanze diede ragione all’attore, ma tale decisione venne ribaltata in secondo grado. La Corte di Appello di Ancona, infatti, riconobbe che seppure risultasse evidente il malessere del lavoratore subordinato, ciò non avrebbe potuto integrare in nessun caso l’obbligo giuridico in capo al datore di lavoro di interrompere tali criticità nella psiche del dipendente, poiché sarebbe stato sicuramente non agevole, e molto probabilmente nemmeno possibile, organizzare un intervento efficace. I giudici ritenevano, inoltre, che la malattia psichica si contraddistingue proprio per l’incapacità di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali, riversando sugli altri, in maniera narcisistica, tutte le cause dei propri insuccessi e dei propri problemi. Alla luce di ciò, risulta evidente che nessun intervento del datore di lavoro avrebbe potuto modificare tale situazione intrinseca al lavoratore.
La Cassazione, adita in conseguenza a tale sentenza, si pronunciò, ribaltandola, il 4 giugno 2019, con la sentenza n.15159.
I supremi Giudici hanno ritenuto la decisione della Corte d’Appello eccessivamente grossolana, laddove è basata su considerazioni generiche anziché analizzare con la dovuta cura e precisione il caso concreto di malattia psichica del dipendente. Parlando di malattia psichica, continuano i giudici, non si può mai parlare di “fatto notorio”, dato per acquisito e da cui possono farsi desumere determinate conseguenze. Risulta essere, invece, necessario un intervento specifico di uno specialista. La Corte di Cassazione conclude così le sue motivazioni “Le conseguenze interpersonali o socio relazionali delle malattie psichiche appartengono, allo stato, al patrimonio tipico dello conoscenze e degli apprezzamenti scientifici dell’ambito specialistico medico-legale e psichiatrico, palesemente non surrogabile da valutazioni, consequenzialmente sommarie e grossolane, del c.d. quisque de populo. Ne consegue che risulta viziato il ragionamento attraverso cui la sentenza impugnata ha escluso la responsabilità datoriale per impossibilità di impedire l’evento.”