Visti e considerati gli avvenimenti dei mesi passati nei quali negli USA è stato negato il diritto di aborto e le recentissime questioni che coinvolgono l’Ungheria, pare interessante affrontare la tematica dell’interruzione della gravidanza nel caso in cui questa non venga negata a priori ma, a causa di omessa diagnosi circa malformazioni del feto, i futuri genitori non hanno la possibilità di autodeterminarsi in questa difficile ed estenuante decisione.
Il danno da nascita indesiderata è, dunque, una forma di errore medico che consiste in una diagnosi prenatale errata.
In particolare, il medico non identifica una malformazione del feto e, di conseguenza, ai genitori viene negata la possibilità di decidere ed autodeterminarsi circa l’interruzione o la prosecuzione della gravidanza.
In questo caso, e anche in quello parallelo nel quale i genitori abbiano optato per l’interruzione ma questa non sia andata a buon fine, la madre e il padre hanno la possibilità di chiedere il risarcimento del danno.
In questo ambito si considerano ‘danno risarcibile’ sia il pregiudizio patito dai genitori per la mancata corretta informazione riguardante la salute del feto, sia la mancata possibilità di autodeterminarsi nella scelta di interrompere la gravidanza attraverso l’aborto terapeutico, sia il peggioramento delle condizioni di vita, personali e patrimoniali, che subiscono i genitori.
Il danno è dunque patrimoniale per le spese sostenute sostenute nella cura di un figlio malformato, e non patrimoniale per il danno psichico patito dalla madre e il padre circa gestione di una situazione complessa della quale non erano neppure a conoscenza.
Come spesso accade in diversi settori della bioetica, la giurisprudenza ha svolto un ruolo importante.
Non senza contrasti giurisprudenziali, la Cassazione si è più volte pronunciata, in special modo a proposito dell’onere probatorio.
Secondo un primo orientamento (anni 2000) operava una presunzione semplice ed era a carico del medico l’onere di provare che, seppur fosse stata correttamente informata, la donna accettava di proseguire la gravidanza di un feto non in salute.
Secondo la giurisprudenza in essere tra il 2012 e il 2014, invece, si poneva a carico della parte attrice l’onere della prova. Era il genitore, dunque, a dover dimostrare che, se avesse avuto conoscenza tempestiva circa la malformazione del feto, avrebbe abortito.
Quanto alle valutazioni rimesse al giudice, la Corte di Cassazione si è espressa con il timore che, nel caso in cui vi fossero determinate patologie e malformazioni suscettibili a priori di dar luogo ad aborto terapeutico, si potrebbe arrivare facilmente ad una categorizzazione inumana delle situazioni, suddividendole in quelle ‘accettabili’ socialmente e quelle non.
Insomma, il timore della Corte è quello che si veda sorpassato o anzi azzerato ciò che davvero conta (anche a livello normativo): la salute psichica e fisica della donna.
Un’altra questione che si pone è quella del risarcimento dovuto al soggetto nato. La questione è molto dibattuta: il dissidio è stato affrontato e risolto dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la pronuncia Cass. Civ. 22 dicembre 2015, n. 25767 secondo la quale il nato non ha diritto al risarcimento del danno in quanto non esiste nell’ordinamento il ‘diritto a non nascere se non sano’.
Sul punto, l’art. 1223 c.c. stabilisce che possono essere risarciti solo i danni che sono conseguenza immediata e diretta dell’agire illecito altrui.
Nella fattispecie, è innegabile dunque come la malformazione stessa non possa essere ricollegata alla condotta del medico.