L’avvocato può, a fini pubblicisti o auto-celebrativi, diffondere i nomi dei suoi assistiti alla società?
La domanda è molto delicata per ragioni deontologiche, anche e soprattutto per il difficile (e poco chiaro) rapporto che sussiste tra la libera professione forense, ancora fortemente incentrata sul rispetto di un codice deontologico rigido, e per alcuni anche retrogrado, e il rapporto con il nuovo, con il marketing e la pubblicità, anche in considerazione di una reale crisi della professione.
Una risposta, dunque, potrebbe essere quella di investire per vendere il proprio prodotto, ovvero l’assistenza legale, in maniera analoga a quanto può fare un artigiano o un impresa.
Ma il codice deontologico forense lo impedisce. Agli artt. 17 e 17-bis, infatti, si stabilisce che è consentito agli avvocati dare veritiere informazioni sulla propria attività, sotto il controllo del competente Ordine Professionale. In ogni caso, l’informazione non deve assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa. Sono, infatti, consentite, a fini non lucrativi, l’organizzazione e la sponsorizzazione di seminari di studio, di corsi di formazione professionale e di convegni in discipline attinenti alla professione forense da parte di avvocati o di società o di associazioni di avvocati.
Da queste stringenti disposizioni derivano paletti ben stringenti per gli Studi che vogliono provare ad emergere dalla grande concorrenza che è propria del moderno mondo legale e le sanzioni comminate dagli Ordini di appartenenza non lesinano ad abbattersi sui trasgressori.
Una possibilità discussa consiste nel dare pubblicità ai nominativi dei propri clienti, al fine di presentarsi all’utenza come uno Studio di successo.
Anche tale possibilità, tuttavia, è stata fortemente respinta dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 9861/2017.
I Giudici Supremi sono intervenuti dopo che un Consiglio dell’Ordine aveva sanzionato con un avvertimento uno Studio Legale associato, che aveva pubblicato sul proprio sito internet l’elenco dei suoi maggiori clienti, avendo ricevuto il consenso da questi ultimi. Impugnata la sanzione dinnanzi al Consiglio Nazionale Forense, lo stesso la aveva confermata facendo riferimento agli artt. 6 e 17 del Codine Deontologico Forense, ritenendosi necessario, avevano aggiunto, in considerazione della peculiarità della professione legale e della sua funzione sociale, limitazioni connesse alla dignità e al decoro.
La linea del C.N.F. è stata pienamente accolta anche dai giudici della Cassazione, i quali hanno aggiunto che il rapporto privato tra legale e assistito non può essere ricondotto a mera “logica di mercato”, per cui occorre una maggiore cautela in materia, a prescindere dal consenso della divulgazione degli stessi clienti.