Sicuramente i primi mesi della nuova decade del 2020 saranno a lungo ricordati da tutti i cittadini italiani e del mondo intero.
Verso la fine di gennaio cominciavano a giungere dalla Repubblica Cinese notizie di un nuovo misterioso virus, per alcuni versi simile all’influenza per tasso di contagio (quindi, come immaginabile, enorme), ma più micidiale, in quanto, soprattutto nelle persone più deboli come gli anziani e gli immunodepressi, destinato ad evolversi in una grave polmonite.
La Cina è stata molto veloce ad isolare la città di Wuhan (capoluogo della provincia di Hubei), epicentro dell’infezione, tant’è che il mondo si è per breve tempo illuso che il contagio fosse stato arginato. A febbraio però anche l’Italia ha cominciato a contare i primi malati, seguita poi dal resto dell’Europa e dall’America.
In Italia il “blocco totale”, che prevede l’obbligo di rimanere a casa per tutti i cittadini (eccetto in caso di problemi di salute o necessità, come fare la spesa), chiusura di tutte le imprese, eccetto quelle che producono o distribuiscono beni di prima necessità, è stato in breve esteso da zone di quarantena denominate “zone rosse” a tutto il restante territorio nazionale (DPCM 09 marzo 2020).
A seguito di questo Decreto e dei successivi che hanno esteso e/o modificato la portata delle restrizioni è sorta l’indubbia necessità di capire come queste disposizioni, prese in quasi tutti i paesi del mondo occidentale, influiscono sui contratti in quel momento vigenti. Si pensi alla fornitura di energia alle case, in cui i cittadini non possono più lavorare, e quindi ottenere una retribuzione, oppure alle imprese, che non possono più svolgere la loro attività commerciale.
Inoltre la pandemia, che secondo gli esperti virologi potrebbe attenuarsi con la bella stagione, sarebbe in grado di ritornare con l’autunno, indi per cui capire gli effetti che il così detto lockdown ha sulla capacità negoziale del cittadino e delle imprese è fondamentale.
Il primo istituto a cui dobbiamo rivolgerci per risolvere questo problema è quello dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, regolato all’art. 1256 c.c.
La norma, che regola un istituto generale di diritto privato, cita testualmente: “L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.
Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento. Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.”
Costante giurisprudenza ha sempre rinvenuto l’esistenza della causa di impossibilità sopravvenuta alla presenza di tre requisiti quali: impossibilità estranea alla volontà delle parti, incapacità di prevedere la causa di impossibilità all’adempimento nel momento della sottoscrizione del contratto, tentativo senza alcun indugio del debitore all’adempimento (Cass 21973/2007, 2059/2000, 14195/2018). Come è facilmente riscontrabile, tutti e tre i suddetti requisiti coesistono in una situazione emergenziale quale quella dettata dal Corona Virus.
A sgomberare la scena da possibili fraintendimenti è comunque intervenuto il legislatore, che con l’introduzione dell’articolo 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla l. 5 marzo 2020, n. 13, al comma 6-bis ha previsto che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
In realtà tale dispositivo normativo è stato inserito per regolare i contratti pubblici, ma pare pacifico che la sua applicazione debba estendersi, per relationem, anche a tutti i contratti privati.
Non bisogna nemmeno sottovalutare la duplice possibilità regolamentata nell’art. 1256 c.c. in proposito dell’impossibilità sopravvenuta: questa, in effetti, può essere definitiva o temporanea. In conseguenza di ciò i suoi effetti sono opposti. Se parliamo di impossibilità definitiva, infatti, il contratto si estingue, seppur senza colpa del debitorie. Se invece ci troviamo dinnanzi a un caso di impossibilità temporanea, il contratto perdura e rimane efficace fino a quando il creditore o il debitore perdono interesse a conseguire la prestazione o a farla eseguire.
La perdita di interesse, deve essere considerata applicando criteri di ragionevolezza oggettivi, in rapporto al contenuto e alle circostanze del contratto specifico. Così la Suprema Corte “L’impossibilità parziale, in quanto temporale, ha effetto risolutivo solo quando, avuto riguardo all’interesse delle parti, investa l’essenza stessa dell’operazione negoziale, privando il resto, in parte significativa, di utilità o, comunque, mutando significativamente lo scopo perseguito con il negozio, ai sensi degli artt. 1362 e ss., c.c.” (Cass 4939/2017).
Nel caso di pandemia da noi trattato, in considerazione delle disposizioni governative, sempre temporanee e mai emesse sine die, pare anche qui pacifico che ci troviamo in presenza di impossibilità sopravvenuta solo temporanea, con la conseguenza che i contratti sottoscritti prima della crisi rimarrebbero validi, seppur sospesi senza colpa del debitore.
Discorso a parte meritano i contratti a prestazione continuata o periodica. Per analogia potrebbe applicarsi la giurisprudenza adottata per l’esecuzione dei contratti di locazione in concomitanza ad eventi tellurici. In tali casi, infatti, pur mantenendosi il contratto, vengono sospesi i relativi obblighi di adempimento quali il pagamento dei canoni in relazione all’impossibilità di godere dell’immobile inagibile (Cass. 21973/2007).
Nel caso in cui l’impossibilità sopravvenuta della prestazione alteri l’equità dei reciproci adempimenti, l’unico modo per poter ripristinare l’originale interesse insito nel contratto è quello di ricorrere all’istituto della buona fede. Per la dottrina maggioritaria, infatti, la buona fede imporrebbe ai contraenti di cooperare, attivandosi per porre in essere le modifiche necessarie per ripristinare l’equilibrio delle prestazioni, in modo da garantire la prosecuzione del rapporto contrattuale, perseguendo la realizzazione del risultato voluto dalle parti con la pattuizione iniziale (PIATTI, MACARIO, SACCO, DE NOVA).
Un’importante menzione spetta in proposito alle utenze domestiche e lavorative. In tale ambito è recentemente intervenuta l’ARERA (Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente) che ha disposto la sospensione delle pratiche di distacco dalla rete di energia elettrica, acqua e gas per i morosi fino alla fine dell’emergenza. Terminata l’emergenza le aziende venditrici delle suddette forniture saranno costretta a rateizzare le bollette non riscosse, in maniera automatica e spiegata nelle bollette, oltre che senza interessi. Sono anche rinnovate d’ufficio anche le promozioni delle singole imprese private che scadevano durante il periodo di chiusura totale imposto dal governo (di altri 60 giorni).
In fine, in attinenza alla derogabilità delle disposizioni in ambito di impossibilità sopravvenuta della prestazione, unanime giurisprudenza ha confermato la possibilità in capo alle parti di sottoscrivere clausole che elimino l’applicazione dell’art. 1256 secondo comma c.c..
I giudici hanno infatti ritenuto applicabile il patto in deroga ex art. 1464 c.c., in cui il contraente sinallagmatico esclude il rimedio della risoluzione per impossibilità temporanea (Cass. 3694/1984).
A tal proposito vale la pena chiedersi se l’esistenza di tali clausole possa valere anche in un caso emergenziale come quello in atto. Infatti, interpretando tale risalente ma costante giurisprudenza alla luce dei decreti legge n. 6, 13 e 18 del 2020, sembra che tali clausole non dovrebbero comunque ritenersi valide, tamquam non esset.