Esponiamo ora l’ultimo caso nella nostra rassegna composta da altri due articoli pubblicati su questo medesimo sito, avente ad oggetto casi pratici realmente accaduti afferenti il tema della delinquenza minorile di gruppo. Lo scopo è quello di creare un approfondimento sul tema, rivolto ai Signori che si dimostrassero interessati ad approfondire questo specifico argomento, ancora poco studiato, a cavallo tra diritto penale, diritto di famiglia, psicologia e sociologia.
Oggetto della nostra inchiesta è un caso avvenuto tanti anni fa in un piccolo paese nel ponente ligure, Arma di Taggia, uno dei primi di questa tipologia di delitti, ma, purtroppo non l’ultimo nel nostro Paese (basti pensare al ben più famigerato caso passato alle cronache come “Il delitto di Novi Ligure” perpetrato dagli ormai celebri Erika e Omar, o ad altri ancora, che, tuttavia, vedono sostanzialmente il ripetersi di uno schema mentale e materiale simile, seppur con i vari e ovvi distinguo, che ora proveremo ad analizzare).
Un giovane giostraio di quasi 18 anni viene arrestato con l’accusa di aver ucciso la madre delle fidanzata, colpendola ripetutamente con un martello mentre questa dormiva. Il giovane, durante la confessione, sostiene, però, confermando anche i sospetti degli inquirenti, che la sua fidanzata avrebbe contribuito alla realizzazione del grave delitto; rivelazione che fece finire la storia d’amore e aprì una serie di accuse reciproche sulla responsabilità del delitto. La giovane avrebbe dato un consapevole apporto al rafforzamento della volontà criminosa dell’autore del delitto, lamentandosi con lui del comportamento della madre nei loro confronti, manifestando avversione e aggressività verso la stessa ed assumendo un atteggiamento di connivenza circa le attività preparatorie al delitto, quali, in particolare, l’acquisto e la conservazione dell’arma adoperata per l’esecuzione.
La coppia, considerabile alla stregua del gruppo, era stata valutata determinante alla commissione del delitto, in quanto aveva causato una soggezione psicologica nei suoi membri, ma non tale da escludere la capacità di determinarsi e di rinunciare ad un comportamento autonomo. Probabilmente sia il fidanzato che la fidanzata si sono influenzati reciprocamente nella fantasia, poi diventata reale, dell’omicidio. Nella coppia si è creata l’idea del delitto; questa idea, però, poteva essere controllata, vista la completa capacità di intendere e volere dei rei.
In altre parole, come osservato da più periti interpellati per chiarire la capacità ad intendere e volere dei due, questi volevano l’omicidio, perché lo ritenevano “giusto”.
La giovane, appena quindicenne, viene ritenuta in grado di comprendere il disvalore dell’illecito, le possibili conseguenze sul piano giudiziario e viene considerata capace di orientare la propria volontà. La ragazza, infatti, è risultata scevra da patologie psichiche e dotata di discrete doti intellettive, pur in presenza di una non piena maturità del pensiero e di una certa superficialità e inadeguatezza, tipiche peraltro, dell’età adolescenziale. Ha tenuto un comportamento giudicato dal Tribunale freddo e determinato sia antecedentemente al crimine, quando ha agito in modo da sollecitare il fidanzato ad agire, sia successivamente, mantenendo a lungo il silenzio sull’accaduto e cooperando al tentativo di eliminazione delle tracce del delitto. Per queste ragioni la giovane viene dichiarata colpevole di concorso morale, ex art. 110 c.p., in quanto la sua condotta si esplica sotto forma di impulso psicologico per un fatto materialmente commesso da altri. La Corte di appello di Genova ha affermato: “Pur essendo impossibile ricostruire con certezza l’affettiva successione degli eventi, è opinione del Tribunale che la minore abbia contribuito, sia pur in minima parte, sotto il profilo causale, alla realizzazione del grave reato per cui è processo”.
La Corte analizza taluni elementi: “In primis il fatto che tra i due giovani esistesse un’intensa relazione, in secondo luogo che la vittima non vedeva di buon occhio la vicenda e aveva preavvisato l’imputato che lo avrebbe allontanato. Inoltre, i rapporti tra madre e figlia erano assai tesi (la stessa figlia si lamentava del comportamento della madre, ritenuto disinibito, e al contempo lamentava una carenza di libertà). La figlia, nel suo diario, faceva riferimento a ipotesi di morte nel caso di perdita del suo amore. Infine il suo comportamento dopo il fatto appariva non solo consapevole ma pienamente in sintonia con l’atteggiamento del fidanzato.”
La Corte concludeva che la giovane avrebbe rafforzato il proposito omicida del compagno, che, seppur a livello verosimilmente generico, sussisteva nella mente dell’imputato. Quindi trattasi di concorso morale, dove la giovane avrebbe svolto il ruolo della così detta istigatrice.
Il Tribunale Minorile di Genova nel 1993 pronunciò ordinanza con la quale sospese il processo in corso nei confronti della ragazza, per 3 anni, con messa alla prova ex art. 28 d.P.R. n. 488/1988.
Attraverso questo istituto la giovane godette della sospensione del processo e si sottopose alla prova “comminatagli” dal Tribunale, costituita da incontri di psicoterapia e servizi socialmente utili, allo scopo di valutare il comportamento della giovane, il suo pentimento e la possibilità di compiere altri reati. Successivamente il reato fu dichiarato estinto con sentenza, per esito positivo della prova.
Bibliografia
- A. TEDESCHINI, La messa in prova del minore omicida, analisi della sentenza del Tribunale Minorile di Genova del 1 luglio 1996, 1998, p. 1, reperibile on-line all’indirizzo: www.personaedanno.it
- P. CHAPAUX-MORELLI, P. COUDERC, La manipolazione affettiva nella coppia. Riconoscere ed affrontare il cattivo partner, Chieti, 2011, Psicoline,
- F. MARTELLI, R. BIANCHETTI, Criminalità minorile: analisi fenomenologica e casistica nei reati di gruppo, in Cassazione penale, 2004